martedì 30 marzo 2010

Parole senza


Parole senza (un senso, la giusta ferocia o solamente un perché)
ovvero di come sia facile invertire l'ordine delle cose a pochi minuti dalle 3

Dove sono o dove si possono ancora trovare le corrispondenze biunivoche?

Benvenuti nel fertile deserto della notte, a 26 minuti dal prossimo N9 e a soli 4 dal precedente
Tra ombre claudicanti e fantasmi ebbri
tra straniere comitive eccitate e pendolari attardati
tra promesse e rinunce
tra proposte e fatiche
il freddo avanza anche a fine marzo
tra i fantocci del presente e le macerie elettorali

Tifiamo rivolta e cerchiamo conferme
[e se è il caso pisciamo indisturbati davanti l'ufficio informazioni]
dentro e fuori noi
vaghiamo a vuoto in abiti eleganti

No, non ci sono per nessuno
no, forse non sono proprio nessuno

La vetrina non è più in allestimento, i sorveglianti in uniforme messsaggiano al cellulare, i senza casa vomitano parole: take care, i respect you, so you respect me too!

E le intenzioni sono sempre ulteriori.

No, non voglio un taxi
Non voglio un passaggio
Semmai solo un assaggio
di come saremmo, di come potremmo

Scusa, quale autobus va ad Ostia? Chiedi tu, io non so parlare bene...Prendi questo, poi scendi a Piazza Venezia e cerca di catturare l'N3!

Ma si, ci piace Godard anche dopo un litro di vino. Soprattutto e ancora.

Ma si, nel Lazio era lecito sperare, e continuarsi a dimenare.

Poteva andare peggio?!? No! Scrisse Altan e nella notte mi si riferisce

Ma si, mi piace prendere il notturno all'una.
Ma si, mi piace prender le cose per quel che non sono, farmi trasportare, da quattro ruote, da un volto o da un pensiero
tra i ritardatari e gli attardati
tra gli incompresi e gli altrimenti adatti

Siamo al capolinea
cerchiamo un inizio
vogliamo un indizio

Le mie parole sono sassi
Le mie immagini sono schiaffi
e forse cerco solo incendi in cui tuffarmi per bruciare con una certa indisturbata intensità.
E allora rubiamo, raccogliamo e deprediamo quello che occhi e orecchie catturano, gioco sfinito eppure infinito del radunare oggetti trovati - Socrateeeee – per smembrarli e ricomporli, trasferirli e riadattarli.

Sento un'eco
e non è della mia voce
Sento dei tacchi
e non son quelli
delle mie
scarpe.

Stiamo all'erta, gli sfoghi son senza valvole
e la fermata è prenotata
Presto si scende per non andar da nessuna parte.

E in fondo, la via che cerchi non è d'uscita

E in fondo, cosa possiamo farci noi (che non sappiamo cosa sia l'audacia)

La speranza è una trappola, e il paese che la vota è un incubo.

Ci siamo quasi. All'inizio o alla fine.


No, non ci credo
No, non mi credo.

domenica 28 marzo 2010

Passi

De-testate attese, tesi e testardi movimenti marginali. La riscrittura dell'esperienza vissuta come arma di raffinamento e di sfinimento. Di moltiplicazione e di erosione.
Solo i piedi – quelli dotati, quelli sgraziati - sanno aspettare.
In perturbata quiete, meglio perderla, la testa, mentre conti il grande imperturbabile, il tempo che manca o quello che ancora ti resta.
Attitudine umana o solo cittadina, quella dell'appostarsi alla fermata in attesa che la vita passi a prenderti.
Andirivieni di corpi con falcate difformi e specificità tagliate in basso. in fondo, tra i passi dei prendenti/perdenti autobus, siamo tutti uguali. In basso, tra arti inferiori in concitata o tiepida azione – in trepidazione - siamo tutti volenterosi passeggeri volenterosi di farci trasportare...

martedì 16 marzo 2010

RRG


D'una celebrazione d'un versificatore che non ho mai conosciuto.

Morto ma non de-funto. Non ancora privato del suo presunto ruolo.

Morto ma non estinto. Non ancora eliminato dal suo amato suolo.

Mai incontrato eppure per giorni rivisitato. Ormai sono parte di me quelle istantanee d'un conterraneo oggi eletto a poeta e per lunghi anni dissipatosi tra il paese e il resto della terra. Morto ma non de-funto.

Ti stritoleranno nel mondo, là, fuori da qui, non funziona come dentro la tua testa!


Sono una calamità

crollo da solo

Sono una calamita

non rinuncio a nessun contatto


Leggo, mi surriscaldo, non abbandono il mio stato.

E quasi mi inceppo. Avrei tanto voluto farlo.

Vola via l'anima da noi, lo spirito si dissocia dalle occupazioni del corpo. Non c'è modo più di ritrarci in pose e in dimensioni che non siano distorte.

Dov'è la poesia e di quale sia il suo posto. Tra il comodino e le corde vocali. Tra il diario di bordo e il messaggio d'auguri. Tra la spinta a procedere e quella a buttarsi giù. È forse nell'anfratto minimo tra le cose che facciamo. È quel che non sappiamo dire definire circuire denotare mortificare?

E come può avvicinarsi a noi in mezzo a tutto questo frastuono di solennità?

Delirio lirico in forma di bozza atemporale. Declamabile con tutti i dubbi del caso. Con tutta la frenesia del perché mai dovrei occuparmene. Con tutta la disponibilità del non mi stai dicendo niente.

Di come essere egoisti e di come diffondere le proprie dolorose intimità. Offrirle a chi ha le ferite più aperte.

Postumi tumefatti d'un approccio inedito.

Si tratta di lampi. Di scosse dalla durata d'un verso. Dall'intensità di una sillaba. Si tratta di scosse, di perturbazioni necessarie, di assenze rivelate, di punteggiature rinnegate.

Tra invocazioni e ringraziamenti, tra celebrazioni e mancamenti, commozioni e fragilità, impasse, piccoli entusiasmi, rivendicazioni egocentriche e dichiarazioni d'intenti, tra provocazioni e ritrovamenti, punti di partenza e coazione a ripetere. Insoddisfazioni, spese vive e poco chiari contributi.

No, non è con gli applausi che vorremmo avere a che fare. Non ci sono cesure né salvezze né scorciatoie liberatorie e classificatorie in un happening che si rispetti. Ma forse non è il luogo, non è il tempo.

Tra equivoci impedimenti e problemi tecnici, il parlar limpido e diretto trova la via di certi sguardi. Nell'intesa di un certo desiderato incrociarsi di occhi lontani eppure assai prossimi nel riconoscersi, tra le teste accomodate, in quelle parole che volavano allora in sala. Un sorriso e poi un altro e poi meglio non esagerar, ché ogni musa che si rispetti sembra sia fatta per non poter essere approcciata se non con la mente, per non poter esser accarezzata che con le idee.

Ognuno ha quel che (non) si merita, ovvero ogni riconoscimento è tardivo. Tra solennità e semplicità, una mano appoggiata con la fragilità di chi a fatica non crolla stremata, resistendo orgogliosamente aggrappata alla spalla di quel busto ancora fresco. E il poeta vivente che barcolla ubriaco e timido. Non posso esser io a leggermi oggi, qualcuno può farmi da degno delegato?

Colui che era sempre incazzato, indignato, fuori posto, si sentì in fin di vita e checovianamente “il maggiordomo di una casa in cui più nessuno vive”.

Necessità di diffusione, nuove tecnologie, vecchie discrasie. Ringrazio il sindaco e tutti i convenuti.

Viveva per la poesia e per null'altro. L'unico che convinse i non fumatori che fumare è bene.

E nel mezzo o da qualche altra parte, tra sensazioni contrastanti di chi è ancora vivente, Sam arancia, per eccesso di generosità spremuto fino all'osso da chi si accorge della sua bonaria avveduta e sognante sprovvedutezza, della sua incapacità a dir no, della sua tenace e donchisciottesca lotta contro le leggi del soldo. Verrà il giorno in cui non potrai più farlo, ripete ad ogni incontro uno stanco respiro paterno. Verrà il giorno e non ti avvertirà.

E poi, come può un mancino destreggiarsi?

No, non è il tuo forte puntare il dito. Non è il tuo forte puntarlo in alto.

C'è qualcuno che si distrae e non dovrebbe. Non avrebbe dovuto. Non sa come nascono le sconfitte. Non sa come sia facile cadere dall'altalena.

Mi hai chiuso fuori, non ti sei accorto che ero sul balcone...

mercoledì 3 marzo 2010

Il cane sulle strisce

Avevo appena finito di percorrere Via del Pigneto quando, giungendo all'incontro con Via Aquila, mi fermai controllando se fosse possibile avanzare.

Vidi allora un cane dal pelo lungo affiancarsi a me mentre attendevo.

Osservò il semaforo, aspettò che il segnale diventasse verde, voltò attentamente lo sguardo a destra e sinistra e poi attraversò la strada sulle strisce.

Io sorrisi sbalordito, indugiai un attimo sull'accaduto e poi attraversai a mia volta.