Attraversando la città in una domenica di inquietudine libera, superato a fatica lo stato allergico causatomi dal fastidioso passaggio tra i galleristi di Via Giulia e poi tra gli antiquari di Via dei Coronari, trovo la mia luce inaspettata in un simil barbone dal gioviale sorriso e la barba saggia di chi d'essere artista non ha la pretesa ma quel che conta di più: il gesto libero, l'umiltà, forse quell'aura altrove perduta dietro i cancelli e le sbarre degli esercizi commerciali che non vendono arte nei giorni festivi.
L'anonimo creatore, incrociato mentre ci si inoltrava sul marciapiede che costeggia il marmo bianco dell'Ara Pacis, metteva in mostra una serie di attacchi paradossali alle convenzioni di quell'arte ormai impacchettata in procedure mercantili non diverse da quelle legate alla compra-vendita d'un oggetto prodotto in serie.
Camuffando il tutto con la sembianza d'imbattersi in casualiobjects trouvés, quel che si aveva davanti agli occhi (ed in tal caso alla forza dell'intelletto, soprattutto) era il divertito atto di chi, prendendo alla lettera lo stereotipo della magnifica Roma museo a cielo aperto, s'è incaricato di fare la sua parte e liberare così l'arte dagli spazi chiusi e privilegiati.
Dispiegava le sue opere cariche d'una giocosa sovversione del trito linguaggio canonizzato al margine della ringhiera antestante gli eterni lavori in corso che contraddistinguono la piazza Augusto Imperatore.
Ci si imbatte nelle sue opere d' oggetti raccattati per strada e si inciampa dolenti nell'ottusità di quelli che sono i nostri sistemi ricettivi di interpretazione e riconoscimento.
L'azione sacrilega del ri-considerare, dell'equivocare e fraintendere, dello spostare e dunque scomodare e spiazzare, movimento di tipica filiazione duchampiana e non meno legato a quel che proprio a qualche passo è ora in esposizione (Munari in tutti i suoi stati di ricerca, purtroppo già segnata dalla risistemazione storica: doverosa parentesi per far notare il paradosso d'un
L'anonimo creatore, incrociato mentre ci si inoltrava sul marciapiede che costeggia il marmo bianco dell'Ara Pacis, metteva in mostra una serie di attacchi paradossali alle convenzioni di quell'arte ormai impacchettata in procedure mercantili non diverse da quelle legate alla compra-vendita d'un oggetto prodotto in serie.
Camuffando il tutto con la sembianza d'imbattersi in casualiobjects trouvés, quel che si aveva davanti agli occhi (ed in tal caso alla forza dell'intelletto, soprattutto) era il divertito atto di chi, prendendo alla lettera lo stereotipo della magnifica Roma museo a cielo aperto, s'è incaricato di fare la sua parte e liberare così l'arte dagli spazi chiusi e privilegiati.
Dispiegava le sue opere cariche d'una giocosa sovversione del trito linguaggio canonizzato al margine della ringhiera antestante gli eterni lavori in corso che contraddistinguono la piazza Augusto Imperatore.
Ci si imbatte nelle sue opere d' oggetti raccattati per strada e si inciampa dolenti nell'ottusità di quelli che sono i nostri sistemi ricettivi di interpretazione e riconoscimento.
L'azione sacrilega del ri-considerare, dell'equivocare e fraintendere, dello spostare e dunque scomodare e spiazzare, movimento di tipica filiazione duchampiana e non meno legato a quel che proprio a qualche passo è ora in esposizione (Munari in tutti i suoi stati di ricerca, purtroppo già segnata dalla risistemazione storica: doverosa parentesi per far notare il paradosso d'un
Dont' Touch
applicato appena sotto le sue Tavole tattili, altro caso di museificazione di ciò che fu eversivo e che invece d'aprire la strada ad un nuovo rapporto con gli oggetti d'arte è finito per essere reintegrato nel sistema ed appeso al muro come una tela in cornice.), nello spirito dell'artista di strada trova una sintesi da ordinaria quieta ribellione. Non si annuncia, non si fa pagare, toglie le barriere che precludono una fruizione spontanea, si fa trovare in uno spazio non deputato e perciò assai più efficace.
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