martedì 14 dicembre 2010

(Dentro) Il Castello


[dentro Il Castello della Compagnia Opera Prima in data 10 dicembre in terra metateatrale festivaliera, documentandomi solo con la mia frenesia, il mio malessere, il mio incondizionato approccio dentro e intorno l'opera]

Ordinata disorganizzazione di quel che in regime di socialità si fregia d'essere la regola. È davanti all'impeccabile che bisognerebbe storcere il naso, andare più a fondo, estorcere dunque il succo se non il sapore o il senso del perché vogliamo essere rigorosi aderenti alla norma, efficienti e disciplinati.

Misurarsi con le proprie angosce - angoscianti recite di regole - e con quelle del proprio maltempo. Recriminanti ma non troppo poiché il sottostare a volte funzionalmente ci può stare. Somatizzarle queste angosce, ribattezzarle attraverso mostruose visioni agite di corpi e di fiati. Scomunicando ogni benestante linguaggio e piuttosto sfinendosi come automi bracca(n)ti dall'avvento (l'evento?) che non c'è.

Mascherandosi nascondendosi rincorrendosi. Irresoluti così come dev'essere, intrappolati in un castello tutto mentale e labirintico nel tempo nello spazio e nelle situazioni. Quasi sacrali interpreti di gesti e azioni dotate di magnifica vacuità, di concreta surrealtà, nei pressi d'un varco, d'un telefono, d'un nascondiglio. Con coreografici scambi e ricambi.

Partitura sconnessa quanto rigidamente organizzata, liberi solamente di scoprire - ben disposti seppur recalcitranti - che altro fato non sussiste oltre a quel recitare grottesco sfrenato perso o scortese del nostro incasellarci funzionale tra i meandri dei ruoli e dei palchi, diventando via via quello che si è sempre tenuto conto di non essere.

Eppure ad un certo punto eccoci qui ancora sottostanti a un signore superiore, eccoci implosi ad attendere una chiamata una risposta un abbraccio una timida carezza o una decisiva illusoria illuminazione. Ridotti alla riproposizione nostalgica delle più elementari delle pulsioni, tra rimarchevoli scambi di sguardi a vuoto, silenti riguardose peripezie fisiche, sfiancamento assennato della volontà.

E un dibattersi vorace d'arti e d'articolazioni, con la phoné abbruttita a meritoria animale qualità fatica, quell'avvertirci in fondo nell'anima smisurati disumani, mal esseri senza credenziali adatte per riconoscerci o semplicemente per ricordarci d'esserci, prima o poi, stati.

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