martedì 28 dicembre 2010

Radici



Mi piace sapere a che punto siamo. Anche se non so dove siamo, mi piace sapere a che punto siamo arrivati. Se ce ne andiamo non lo sapremo mai.
Radici, clamorosa gabbia identitaria di fabbricazione ingegnosa, equivoco confortevole come un retroterra mentale che sappia guidarti in terre senza cielo come quelle che sconvolgono i nostri malandati piani.
Equivoco tentacolare a cui ci si attacca e ci si maltratta per timore e terrore di metamorfica svolta esistenziale, pur di non sentirsi alieni a quel che è stato prima del nostro assaggio di passaggio già tutt'altro che follemente saggio.
Siamo qui dove qualcuno che ci ha creato si dice che ancora ci nutra per radicate consuetudini. Qui dove dovremmo ri-conoscerci senza esserci mai conosciuti. Fare uso di memoria visto che di presente siamo a corto da tempo. Il tempo è un presente che in quanto dono si offre ai soli sprovvisti di terrene preoccupazioni.
Invece sbadati sbandiamo. Non abbiamo alcuna bandiera. Banditi. Senza nome. Senza nodi e senza pettini.
Noi siamo diretti da qualche parte, secondo me….
Vorrei fare un passo nella direzione giusta
Vengo con te, per la mia strada…
Dove stiamo
stiamo dove stiamo.
dove siamo
di quale dove siamo
Da dove siamo venuti, più o meno?
Venuti meno?
Svenuti. Prima o poi.
E dove andremo
a parare
o a finire
per giustificare questo nostro radicale proseguire.
È solo un complotto dei cartografi
Qui non arriveremo da nessuna parte
Ci siamo spinti troppo lontani
Ci siamo spinti
E poi siamo caduti poiché già in bilico
Suppongo che andremo avanti e basta
Perché se ci capita, se solo ci capitasse di scoprire, o comunque di sospettare, che la nostra spontaneità è parte di piani altrui, sapremmo di essere perduti..
E si sa, il tempo non è dalla nostra parte.
Ci osserva.
È di noi il freddo controcampo
Per quante bussole possano esserci al mondo, la rotta è comunque una sola, e il tempo è la sola unità di misura..
Le radici umane si lasciano trasportare dalla corrente. Si fanno levigare dalle intemperie. Assumono sembianze antropomorfe solo a posteriore ragion veduta. Solo le radici si fanno sradicare
Andiamo
Dove?
Ovunque
Perché?
.

giovedì 23 dicembre 2010

Tutto quello che voglio mi (de)capita

D'un uomo senza anima in cerca di testa, non la sua, poiché di quella deve fare a meno per tagli sostanziali decisi in sede di s-consiglio mentale causa sopraggiunto notevole indebitamento sentimental-esistenziale.


D'un uomo senza testa in cerca di un'anima, non la sua, poiché già persa nei meandri scoscesi perduranti e rovinosi del desiderio irrisolto, ma di quella di chi gli vuole bene e ha promesso di non farne oggetto d'abbandono.


D'una testa senza anima in cerca di un uomo, quel me stesso ferito per insufficienza di prove d'esistenza e di resistenza.


D'un'anima senza testa in cerca di te.


domenica 19 dicembre 2010

Un lungo giocare lucido LP



Un lungo giocare lucido

rovinoso collage dal sottosuolo

intorno alla confezione domenicale 12 12 10 komakino



This is the hour when the mysteries emerge.
A strangeness so hard to reflect.
A moment so moving, goes straight to your heart,
The vision has never been met.
The attraction is held like a weight deep inside,
Something I'll never forget.



All'amato me stesso

augurerei

un po' più di radicalità


di punk qui ho visto

o meglio udito

solo alcuni rutti


SE ACCENDONO LE STELLE

SIGNIFICA CHE QUALCUNO

NE HA BISOGNO?



e poi invece una stanza decorata di mille vuoti a perdere ad alta gradazione

tutti ben in posa

nessun vetro incrinato o frantumato

nessuna lacerazione dello status quo attoriale


SIGNIFICA CHE QUALCUNO

CHIAMA PERLE QUESTI PICCOLI SPUTI?


un campionatore di suoni

un basso dissonante

la recita dell'errore e non l'errore in evidenza

il barcollamento della trama


dov'è l'idea registica alla base di tutto?


Dov'è la base registica dell'idea?


Dov'è il tutto?


IL CRANIO BRILLA

PUR NASCOSTO FRA LE GAMBE


E quell'unico momento di presenza

con tre dallo stomaco impegnato a ingurgitare lentamente bevande

lentamente

fine lato A

eccezionale rispecchiamento della nostra bivaccante condizione attuale

stanchezza esistenziale e ferite del cuore

concerto sconcertato scordato

ma la violenza dov'è?

Ma l'irruenza cos'è?


Fate irruzione tra di noi, non aspettate che vi aprano la porta


Diapositive

ruggiti mugolanti

uno sbando moderato

uno sballo rimandato


URLO RIME AL FRASTUONO DEL MONDO


Majakovski che si sparò per il fallimento d'una rivoluzione

e noi qui chiniamo la testa in cerca d'applausi


lieto fine senza danni e senza incrinazioni

revival spettacolare un po' vintage un po' azzeccato



The pattern is set, her reaction will start,
Complete but rejected too soon.
Looking ahead in the grip of each fear,
Recalls the life that we knew.
The shadow that stood by the side of the road,
Always reminds me of you.


Un prosecco prima un merlot dopo. Guardate come siamo bravi a farci offrrrrire da bereeee da una ciurma di attenti spettatori parzialmente sconosciuti. In realtà nemmeno tanto. Qui tra neon gelidi e interruzioni moleste, modeste, facciamo solo finta d'ubrrrriacarci. L'alcool lo reggiamo fino ad un certo punto e il palco ancor meno. Siamo veri solo quando ci riposiamo, confessiamo stanchezza somatizzandola e non simulandola.

Poi, lo sappiamo, non possiamo certo farci arrestare da tecnici o gendarmi per danni fisici o morali allo spazio e ai convenuti. Invitanti siamo stati invitati. Abbiamo occupato il rettangolo metateatrale dei nostri vuoti, abbiamo proposto una fruizione più rock, abbiamo alzato il volume, abbiamo spento le luci consegnandovi alle nostre parole disagiate e ai vostri battiti stanchi. E poi no, non abbiamo mai pensato di spararci come Majakovskij. Non c'è più nessuna rivoluzione da piangere o affermare. Ci sono solo dieci e più pesanti sacchi di bottiglie da smaltire, due casse da smontare, un magnifico prezioso telo bianco che fu di Leo da riavvolgere e riportare a casa.


E poi c'è solo un n11 ancora da aspettare, pronosticando al gelo di via Induno quale dei barboni questa volta bisognerà evitare. E no, un gesto d'affetto non è il caso, siamo troppo stanchi per pensare anche a noi e alle nostre reciprocità.



ORA CHE LA FINE È VICINA

AFFRONTO L'ULTIMO SIPARIO


All'odiato me stesso

alla mia testa deleteria

pregasi astenersi da gusti e disgusti

da preferenze e inferenze

e dire ancora e godardianamente

quello che c'è tra le cose

e niente di più

e niente di meno



How can I find the right way to control,
All the conflicts inside, all the problems beside,
As the questions arise, and the answers don't fit,
Into my way of things,
Into my way of things.


VOLEVO RUMORE E VITA VERA

VOLEVO TUTTO

giovedì 16 dicembre 2010

No (non solo un progetto)


Si in ritardo di corsa sotto zero con mani ghiacciate ormai appena dopo le 20 anch'io assisto fin quasi dal cominciamento al nuovo reading del Progetto No in foyer rimesso a elegante nuovo con due camere in azione con occhi amati a lavoro e con diapositive stralunate e fondale nero dal quale quelle lenti come tettoia coprono la fronte del lettore performer.

Dalla di lui semi cupa bocca escono parole come come collage di cyber punk voli pindarici mancamenti sintattici neuroscienza demenzialità colta fatti di cronaca e misfatti di politica e di fantascienza (delle ultime due gli addendi sembrano ormai drasticamente intercambiabili) che vanno a parare in una risata o in una metaforica discesa a fondo del più forbito dei discorsi, dove si tratta - in accurata trasfigurazione del nostro fingerci seriosi umani - di Potere e di schiavi, di succubi di scadenze quotidiane, di macerie, di fiducia rinnovata al degenere sociale, e qui mi pare ci si sia già ripersi e ritrovati già oggi nel bazar di Montecitorio.

Atto politico del non lasciar traccia del senso, del titolare delirante e altisonante, del decantare deformante. Il 7 e il dottor Molese sono antieroi sbilenchi dei nostri perduti giorni, accademicamente franati, fragorosamente bizzarri e poi delicati e poi titubanti e poi argutamente buffi. E qui mentre mi svesto e il percorso di lettura va finendo non so ancora se mi verrà qualcosa in mente da inoltrare al prossimo, degnandolo di un discreto filtro di comprensibilità comunicazionale o se sarà il caso di immolare con affilate armi la sintassi alla negazione galattica proposta dal partecipante al festival Settembre Marco.


Riesumando a questo punto quel che di deontologicamente e responsabilmente più adeguato scrissi a riguardo dello stesso o quasi n7 alcuni mesi addietro.


E infine Marco Settembre, frequentatore assiduo del MArteLiveMagazine sotto altre vesti, in questa occasione investito del ruolo de Il_7 all'interno del suo Progetto No, diario a-cronologico scritto con lo stile del blogger dal 2003 ad oggi, baciato nell'occasione da un imprevisto quanto tempestivo black out di sala (proprio al momento in cui s'accennava di spionaggio) e capace durante la performance di esilaranti trasformazioni nella modulazione vocale.


Ornato di insolite lenti luminose, un dispositivo ottico con il quale scorgere anche nell'oscurità “quel che resta dell'umanità e della società”, il suo reading ha presentato le avventure tragicomiche di un universo parallelo, una versione romana del prossimo mondo a s-venire, tra Orwell e Douglas Adams, tra figure d'incerta origine e ancor meno certa deontologia. Fantascienza apocalittica in chiave sarcastica, parodia divertita d'un genere e insieme critica sociale beffardamente agita per vie traverse, attraverso una sovversione del linguaggio “tecnico”, con inserzioni di elementi estranei, scombinamenti sintattici, dotte arguzie e capitomboli nelle turbe intestinali, senza fronzoli cerimoniali, propagando attraverso un atteggiamento dada l'entropia del senso, per dirla con le parole del 7, il Progetto No è uno sproloquio solo falsamente sconnesso, il ritratto letterario degli abitanti d'un pianeta che ci assomiglia, quello fatto di misere e solitarie “monadi del cinismo godereccio”.

martedì 14 dicembre 2010

Come Bestie che cercano bestie (o palchi?)


Come bestie che cercano palchi. Che azzannano corpi. Che cambiano abiti. Spazi spogli da periferia d'una scenografia, un ring d'assi di legno multifunzionali essenziali perfette per una strana coppia (o solo copia) dalle alterne rovine do botte e puttane di tasche e pance vuote di Testaccio al tempo dell'odore del sangue, del macello, di San Basilio, del passeggiar romantico sotto il monte dei cocci. Presa diretta col popolo in verace lingua di borgata,.

Come bestie misere e disperate. Rabbia simil proletaria paragrafizzata in otto tranche per iscritto da PPP e poi a voce messa in scena trapuntata da pause pop canore e rappresentata da Imamama Teatro in con-formazione con corpo tondo rozzo e sozzo - in esplicito esagerato overacting fin dagli stiracchiamenti attoriali dell'esordio - e suo contraltare trasognante romano rumeno di mastodontica mole sonnecchiate.

Dateci allora un po' di pericolosa violenza agita, scosse energetiche e vibranti colpi a vuoto come carne da macello come copertoni che segnano scomodo corpo umiliato e morto, abbattetevi con le vostre ombre nette su di noi. Come cani dalle ossa rotte, disperati animi dai fetidi odori.

E non attardatevi ancora a raccontare quello che non c'è o c'è stato in un altrove, mandandoci così lontano dal nostro presente spettatoriale, ovvero ancora una volta confortevolmente al sicuro e al riparo dai pericoli dei margini degli eccedenti degli emarginati degli eccessi infetti della carcassa del nostro corpo sociale. Rovinarsi insomma solo coreograficamente e a parole invece che picchiare, ammaccarsi, mancarsi, scopare sul serio ferirsi e grondare sangue.

E invece pur rigettando l'addio borghese come attaccamento alla roba, ci si attiene a ciò di cui in principio si dichiarava l'estraneità e si è ordunque come bestie che non mordono, bestie realiste ammaestrate, cercatrici non di vaste radure nelle quali correre, ma di briglia con le quali restar meno sciolte.

Canzone non cantata, ballata non andata. Inchiodati all'infimo in cui si è impantanati, senza alcuna scala sociale. La riscossa si sa, è nello scendere la china fino in fondo.

(Dentro) Il Castello


[dentro Il Castello della Compagnia Opera Prima in data 10 dicembre in terra metateatrale festivaliera, documentandomi solo con la mia frenesia, il mio malessere, il mio incondizionato approccio dentro e intorno l'opera]

Ordinata disorganizzazione di quel che in regime di socialità si fregia d'essere la regola. È davanti all'impeccabile che bisognerebbe storcere il naso, andare più a fondo, estorcere dunque il succo se non il sapore o il senso del perché vogliamo essere rigorosi aderenti alla norma, efficienti e disciplinati.

Misurarsi con le proprie angosce - angoscianti recite di regole - e con quelle del proprio maltempo. Recriminanti ma non troppo poiché il sottostare a volte funzionalmente ci può stare. Somatizzarle queste angosce, ribattezzarle attraverso mostruose visioni agite di corpi e di fiati. Scomunicando ogni benestante linguaggio e piuttosto sfinendosi come automi bracca(n)ti dall'avvento (l'evento?) che non c'è.

Mascherandosi nascondendosi rincorrendosi. Irresoluti così come dev'essere, intrappolati in un castello tutto mentale e labirintico nel tempo nello spazio e nelle situazioni. Quasi sacrali interpreti di gesti e azioni dotate di magnifica vacuità, di concreta surrealtà, nei pressi d'un varco, d'un telefono, d'un nascondiglio. Con coreografici scambi e ricambi.

Partitura sconnessa quanto rigidamente organizzata, liberi solamente di scoprire - ben disposti seppur recalcitranti - che altro fato non sussiste oltre a quel recitare grottesco sfrenato perso o scortese del nostro incasellarci funzionale tra i meandri dei ruoli e dei palchi, diventando via via quello che si è sempre tenuto conto di non essere.

Eppure ad un certo punto eccoci qui ancora sottostanti a un signore superiore, eccoci implosi ad attendere una chiamata una risposta un abbraccio una timida carezza o una decisiva illusoria illuminazione. Ridotti alla riproposizione nostalgica delle più elementari delle pulsioni, tra rimarchevoli scambi di sguardi a vuoto, silenti riguardose peripezie fisiche, sfiancamento assennato della volontà.

E un dibattersi vorace d'arti e d'articolazioni, con la phoné abbruttita a meritoria animale qualità fatica, quell'avvertirci in fondo nell'anima smisurati disumani, mal esseri senza credenziali adatte per riconoscerci o semplicemente per ricordarci d'esserci, prima o poi, stati.

giovedì 9 dicembre 2010

Texture for a color

Tessiture sonore per partiture visive
maglie di colore per illuminazioni acusmatiche

Offerta di viaggio psico-ottico per menti avviate a lunghe traversate
Astrazioni per orecchie ampiamente aperte ai più disagevoli campi del sentire

Per sopraggiunte esigenze di ricerca, oltre il qualificante e il corroborante: disturbante.